z dalla seconda guerra

Aprile 2005

Dalle rovine della seconda guerra mondiale

all’Europa

 

 

Introduzione

Roberto Comi

Presidente delle ACLI di Cernusco sul Naviglio

L’incontro odierno fa parte di un percorso che le ACLI di Freiburg im Breisgau e di Cernusco – gemellate dallo scorso settembre – stanno cercando di avviare. Un percorso che riguarda la storia dell’Europa e che si articolerà in sei incontri con l’aiuto di diversi relatori, per riuscire ad entrare come cittadini con più responsabilità, all’interno della storia dell’Europa, legando questi incontri con la storia della Resistenza. Questo che vogliamo fare è un esperimento, che ha la sua ragione di essere nel fatto che la storia dell’Europa non può prescindere dalla storia della Resistenza, che ha liberato l’Europa stessa dalle dittature. D’altra parte, grandi personaggi come Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman, lo stesso De Gasperi vedevano un’Europa unita già prima della seconda guerra mondiale.

Nel nostro caso, vorremmo tentare di trovare qualche filo rosso che unisce e ricupera il significato della Resistenza italiana a quella dell’Europa e lo vorremmo fare soprattutto nel sessantesimo della Liberazione con una motivazione precisa: proprio in questi giorni c’è l’attacco contro il XXV Aprile, una data che vuole essere cancellata da una certa politica, che vuole fare una lettura diversa della storia.

In un articolo della rivista “Il Segno”, edito dalla Diocesi di Milano, Mons. Giovanni Barbareschi ricorda i “fogli”, cioè i fogli di informazione che ogni gruppo di combattenti cercava di far conoscere in contrapposizione alla disinformazione del regime durante la guerra. A Milano questo foglio si chiamava “il Ribelle”. Scrive Barbareschi: “E’ bene riproporre “il Ribelle” perché i valori che hanno animato la Resistenza e che sono diventati fondamenti della nostra Costituzione, siano per tutti noi una memoria fondatrice. La memoria è diversa dalle tradizioni e le tradizioni tendono all’inerzia, tendono a perpetuarsi senza fantasia, per loro natura non cercano il rinnovamento. Bisogna educare i giovani a distinguere profondamente tra fedeltà alla memoria e ossequio alle tradizioni. Il XXV Aprile per i giovani di oggi è diventato solo una tradizione: un sindaco con la fascia tricolore che depone una corona davanti ad un monumento. Riproporre “il Ribelle” vuole essere un primo gesto perché quella tradizione diventi una memoria fondatrice per il nostro modo di leggere il passato. Non esiste un modo neutro di leggere il passato e se non saprai trovare la tua memoria fondatrice, altri si sostituiranno a te, suggerendo una nuova memoria fondatrice con la quale leggere la storia, che però non è più tua. E’ questo il profondo valore che io, sacerdote, compio ogni giorno. “fate questo in memoria di me” significa leggere in memoria di me, guardare in memoria di me, interpretare in memoria di me. Questa è la memoria fondatrice”.

Jean Monnet diceva che fare l’Europa significa fare la pace e io credo che questa sia una delle responsabilità che tocca alle nuove generazioni.

Comunicazione

Francesco Maria Feltri

Storico

Vorrei subito precisare che in questi ultimi anni, a seguito dell’imminente ingresso nell’Unione Europea di numerosi paesi dell’Est, ci si è resi conto che l’Europa è una realtà molto più ampia e complessa di quella che solitamente noi pensiamo sia. Il termine Europa evoca in noi – istintivamente – l’Europa Occidentale; in realtà i lituani sono fierissimi nel dire che il centro geografico dell’Europa passa da loro, perché, in effetti, c’è l’immenso spazio russo che sposta notevolmente l’Europa verso Est. Da più parti, soggetti diversi, da Gorbaciov a Giovanni Paolo II° amavano dire che l’Europa va dall’Atlantico agli Urali.

Oggi non abbiamo il tempo di occuparci di tutta l’Europa, cercheremo allora di occuparci solo di quella parte che, nel dopoguerra, ha dovuto risolvere problemi particolari, tra cui la ricostruzione e il confronto con l’altra metà dell’Europa, quella passata sotto il dominio sovietico, trovando fra altre soluzioni possibili quella della Comunità Europea, evolutasi gradualmente in Unione Europea.

Vorrei suddividere il mio intervento in tre capitoli, il primo dei quali è una rapida introduzione di tipo terminologico, vale a dire quali sono alcuni problemi che attraversano tutto il ‘900 e che oggi si ripropongono in forma nuova, ma che hanno la loro origine all’inizio del ‘900. Concentreremo poi la nostra attenzione sugli anni decisivi compresi tra il 1920, il 1925, il 1933, con l’arco della Germania nazista fino alla guerra e infine porremo la nostra attenzione sul tema della ricostruzione.

 

Partiamo da come si presenta il sistema degli Stati europei all’inizio del ‘900: innanzitutto esso si caratterizza per due elementi importanti. Nel campo della politica estera l’elemento principale è il cosiddetto Stato-nazione; a dire la verità vi sono ancora degli imperi multinazionali, quali l’impero austriaco, l’austro-ungarico, quello tedesco che domina mezza Polonia, l’impero russo e l’impero turco; tuttavia la maggioranza degli Stati sta orientandosi verso una sorta di equilibrio tra i confini di uno Stato e la lingua e la cultura della popolazione che vive entro quei confini, nel tentativo di renderli sovrapponibili. Cioè i confini dello Stato in cui abitano i francesi, si cerca di farli coincidere con i confini e con lo spazio abitato dai francesi, in modo che le due cose siano equivalenti.

In ogni caso, l’elemento caratteristico è poi il fatto che l’Europa ha più centri, nel senso che vi sono varie potenze che animano lo scenario politico europeo e non c’è un’unica potenza egemone. Se da questo scenario andiamo a vedere i problemi dei singoli Stati, ci accorgiamo che i problemi sono fondamentalmente due: il primo è una importantissima carenza di democrazia. Per quanto sembri strano la democrazia è una conquista recente; in Italia, fino al 1913, non solo le donne sono completamente escluse dal voto, ma votano praticamente le persone con un reddito elevato, per cui, all’inizio del ‘900, la democrazia è una realtà che non c’è in Inghilterra, non c’è in Francia, non c’è in Italia, per cui le classi popolari, di fatto, sono escluse dalla partecipazione vera della gestione dello Stato. Oltretutto dobbiamo anche ricordare che – tendenzialmente – lo stato dell’inizio ‘900 (modello Inghilterra, ma vale un po’ per tutti) segue ancora un modello liberista: questo vuol dire che lo Stato si disinteressa della situazione economica.

Il postulato è che la macchina economica è un meccanismo autonomo, che si regola da solo sulla base della legge della domanda e dell’offerta; questo provoca periodicamente gravissime situazioni per le fasce più deboli della popolazione che, in caso di crisi, non hanno alcuna protezione in quanto lo Stato si disinteressa completamente dei disoccupati.

In una situazione di questo genere non meraviglia che i movimenti socialisti puntino il dito verso questo stato che chiamano “borghese”, perché non è lo stato di tutti, ma è lo stato dei ricchi, tanto è vero che quando c’è lo sciopero arriva l’esercito e quando c’è la crisi nell’occupazione lo stesso stato sostiene di non avere niente a che fare con quel problema. Si capisce allora come i socialisti – in tutta Europa – abbiano ottimi motivi per puntare il dito verso l’ipocrisia di questo sistema, che comunque crolla da solo con la prima guerra mondiale, con lo scoppio di una serie di incidenti (forse questa guerra non la voleva nessuno), l’Europa sprofonda in una catastrofe ed esce dalla prima guerra mondiale (questo non ve lo dovete mai dimenticare) ancora più a pezzi che dalla seconda guerra mondiale.

I problemi che l’Europa e il mondo intero devono risolvere nel ‘19, sono infinitamente più pesanti se non altro perché nel ‘45 c’era un precedente positivo o negativo, che portava a dire che in una certa maniera le cose – anche in precedenza – non avevano funzionato.

Dopo il 1918 era stata tentata la Società delle Nazioni e si era visto che non funzionava come grande organismo di regolamentazione dei conflitti internazionali. Le nuove Nazioni Unite non funzioneranno, però cercano di fare tesoro di quello che la Società delle Nazioni aveva perduto; la stessa cosa a livello economico, in particolare balzerà subito agli occhi la più clamorosa delle differenze: se la scelta che venne fatta nel ‘19 fu quella di penalizzare, punire e umiliare il principale nemico sconfitto, cioè la Germania, nel 1945, viceversa, i tre grandi Paesi sconfitti (Italia, Germania e Giappone) sono in ogni modo sostenuti dai vincitori; Stati Uniti in primo luogo.

Come si vede, una strategia di segno completamente diverso che fa tesoro dell’errore compiuto in precedenza. La prima guerra mondiale è importantissima per vari motivi, ma il dato più inquietante è forse il fatto che mette in scena le masse: ci si accorge che la società moderna è una società di massa, anche se qualcosa era già cominciato con le dimensioni delle industrie sempre più grandi, ma per l’Italia, il più banale degli esempi, che si era di fronte ad una realtà di massa è con la ritirata di Caporetto, quando eserciti della prima guerra mondiale hanno coinvolto milioni di soldati.

A Caporetto, nel momento più critico, l’esercito italiano, cioè lo Stato con messaggi di vario tipo (teniamo presenti che all’epoca molti soldati erano analfabeti) promise che se la guerra fosse stata vinta, ci sarebbero stati dei miglioramenti sociali.

In sostanza, lo Stato si rende conto che, se vuole continuare a sopravvivere, ha bisogno del consenso delle masse, ma si potrebbe anche dire che, subito dopo la guerra, le masse fanno paura, perché hanno fatto una rivoluzione, fanno paura perché occupano le terre, a Torino occupano le fabbriche. Si può allora dire che il fascismo è simultaneamente due cose: innanzitutto, sostenuto dai grandi industriali e da tante altre forze nel tentativo di bloccare l’ascesa delle masse, ma nello stesso tempo come tentativo di governare, perché il fascismo – come il nazionalsocialismo – vogliono essere regimi di massa. Le masse non devono essere protagoniste, la democrazia viene disprezzata e cancellata, però ci si rende conto che le masse sono un soggetto importante, non si può far finta che esse non siano presenti sullo scenario politico e sociale; ecco che le masse vengono costantemente mobilitate in grandi raduni, in grandi organizzazioni giovanili e grandi organizzazioni di dopolavoro.

Con una strategia tutta sua, che negava in sè i principi stessi della democrazia, il fascismo e il nazismo si sono posti seriamente il problema delle masse. In particolare, il discorso vale per la Germania, non solo perché le liturgie di massa negli stadi sono state particolarmente raffinate, ma anche perché la realtà sociale che porta il nazionalsocialismo al potere è di segno particolare. Non dobbiamo mai dimenticare che la Germania subisce e vive negli anni ‘20-30 due realtà drammatiche: nel 1923 una inflazione devastante per cui un uovo finisce per costare una cifra assurda, a indicare che la moneta è morta. Una immagine che colpisce molto è quella di un signore che deve rinnovare la tappezzeria del proprio salotto e, per farlo, usa le banconote da dieci marchi anziché la carta da parati. Chi aveva qualche risparmio in banca si è ritrovato carta straccia, chi aveva beni immobili si è ritrovato – speculando – con grandi fortune.

Ancora più importante è da segnalare l’esperienza americana, cioè la realtà della grande crisi del ‘29. E’ questa una esperienza centrale nella storia del ‘900, intorno alla quale vorrei insistere, perché è da lì che nascono tantissimi elementi importanti. Il dato più elementare è che il mercato si blocca, il potere d’acquisto – soprattutto dei contadini americani – si ferma, nessuno più compra e quindi le fabbriche americane non sanno più a chi vendere automobili, vestiti, beni di consumo… Allora, il significato storico del New Deal di F. D. Roosevelt consisterà nello scoprire che il sistema capitalistico, se può essere rilanciato, potrà essere fatto solo con il sostegno e l’aiuto dello Stato; il mercato è finito, il mercato è un feticcio, non è vero che da solo è vita, ha anima, è capace di far funzionare l’economia, perché si tocca con mano che il mercato si è completamente bloccato.

Il significato storico del New Deal consiste nell’aver assunto le opere pubbliche come grande strada da percorrere: la diga sul Tennessee diventa simbolo del new deal, il che vuol dire che migliaia e migliaia di persone percepiscono di nuovo un salario, hanno un potere d’acquisto, possono di nuovo comprare e, faticosamente, il meccanismo riparte. Questo significa che lo Stato si accorge che non può ignorare i suoi cittadini ed è lo stesso modello capitalista che richiede questo intervento dall’esterno.

In Germania il discorso sarà doppiamente vero: il primo elemento che dobbiamo ricordare sono i voti del partito nazista che crescono in modo direttamente proporzionale ai disoccupati: in USA sono diciassette milioni, in Germania arrivano a sei milioni, nel 1932. Man mano che vediamo – tra il ‘30 e il ‘32 – crescere il grafico dei disoccupati, alle varie elezioni cresce il grafico dei voti del partito nazista. E’ ovvio che gli operai tedeschi e non solo loro, sono disperati e, in questo contesto, c’è da osservare che simultaneamente cresce il grafico dei voti comunisti, per cui c’è una forbice terrificante e in mezzo, la democrazia è considerata qualcosa di inutile, di assolutamente incapace di risolvere i problemi del cittadino tedesco comune. Tuttavia la maggioranza dei voti in un contesto in cui la volontà di ritornare grandi come grande potenza tedesca è molto importante, indirizzerà il trentasette per cento dei voti sul partito nazista nel ‘32 e porterà Hitler al potere.

Qui dobbiamo avere molto chiara una strategia economica di Hitler: una strategia lucida e il primo concetto importante che mi devo sforzare di far comprendere ai miei studenti, è che Hitler non è un pazzo, Hitler ha una strategia, ma anche le idee di un razzismo esasperato, che lo porteranno a compiere uno dei più efferati crimini della storia, ma Hitler ha un progetto preciso nel quale singoli elementi, con una grande volta, si tengono l’uno con l’altro e permettono la costruzione di un edificio compatto e saldissimo. La prima strategia consisterà nell’organizzare – di nuovo – il riarmo della Germania: è l’equivalente della diga del Tennesse e l’intervento dello Stato nell’economia, sotto forma di commesse, ha fin dall’inizio – come obiettivo – la guerra, perché nella concezione di Hitler l’espansionismo tedesco è parte integrante e il fine del suo progetto.

Una volta che abbiamo tenuto presente questa meta finale, venata di razzismo potenzialmente genocida, dobbiamo metterci dal punto di vista di un tedesco comune, a due livelli.

Il primo livello: pensate a un disoccupato berlinese o di qualunque altro grande centro industriale che chiede a chiunque uno straccio di lavoro e dappertutto questo gli è negato, immaginate cosa succede a questa persona se un amico lo porta a un raduno nazista: si sentirà caricare in modo appassionato ed entusiasmante, tanto da non sentirsi più l’ultima ruota del carro, ma di appartenere ad un popolo dal grande destino purché segua il Fuehrer e testimonianze numerosissime, anche dall’interno del mondo cattolico, dicono che il braccio scattava automaticamente in fuori in segno di adesione. Nei grandi raduni di massa, quando Hitler visitava una città, la gente, (e ripeto anche tanti cattolici) chi più, chi meno, pur problematicamente, con pentimento a posteriori, ha aderito perché Hitler ha galvanizzato e dato speranza ad un popolo disperato.

 

Il secondo elemento importante: le promesse di Hitler non sono menzogne, nel 1933 vi sono sei milioni di disoccupati, due anni dopo la disoccupazione è già ridotta a un milione, nel 1939 si importa manodopera dalla Polonia e c’è piena occupazione. Ci sono una serie di filmati a colori che venivano proiettati nei cinegiornali prima dei film, che mostrano operai al lavoro, che per la prima volta in vita loro hanno le ferie pagate in crociera. Quindi migliaia di tedeschi che hanno guardato a Hitler come al loro salvatore.

Questo è un aspetto che bisogna riconoscere, ma dobbiamo capire in modo corretto che in Germania, il nazionalsocialismo ha goduto di un favore, di un fascino formidabile e dobbiamo essere consapevoli che essere nazisti era straordinariamente bello; se non abbiamo chiaro questo, credo che del nazismo non capiamo nulla: ecco perché sono spesso fuorvianti i paralleli che la sinistra troppo spesso fa – per motivi politici – tra Pinochet e Hitler. Non c’è paragone, perché Pinochet vuole semplicemente che gli operai che hanno nazionalizzato le miniere di rame stiano zitti e pensino a lavorare e immettano profitti nelle casse dello Stato e delle grandi multinazionali americane. A Pinochet non interessa essere amato dal popolo, in Hitler c’è il desiderio di captare consenso in un regime totalitario di massa.

A questo punto, siamo nel 1939, abbiamo dei balzi formidabili e, quando Hitler invade la Polonia, la sconfigge in un mese, l’anno dopo invade la Francia e, in due mesi, la guerra è vinta e, persino qualche generale, che nutriva qualche perplessità nei confronti di Hitler, non oserà più dire nulla.

Qui mi riallaccio a quanto detto nell’introduzione, laddove si parla di Resistenza: per l’Italia è vero, non lo è per la Germania o meglio, la cosiddetta altra Germania, in cui sono pochissimi i personaggi nascosti nell’emigrazione all’estero e la Germania uscirà dalla guerra con un serio problema, quello che lì la resistenza di massa non c’è stata: quel poco che c’è stato sono complotti di militari che il 20 luglio 1944 cercano di mettere una bomba, quando ci si accorge che la guerra è ormai persa. Infatti era già avvenuto lo sbarco in Normandia e la grande offensiva sovietica sul fronte orientale.

Se mi permettete un parallelo un po’ polemico e audace, è come dire che Vittorio Emanuele II’ è il leader della resistenza solo perché quando gli americani sono in Sicilia si rende conto che se va avanti così perde il trono e perde tutto, cosa che poi avverrà, però il suo tentativo del 25 luglio di abbattere Mussolini, è nato dal rendersi conto che la guerra è persa e seguire Mussolini significa togliere l’ultima possibilità di sopravvivenza per la monarchia.

Dunque la Germania si avvia alla guerra e, pur con un po’ di esagerazione, possiamo dire che gli anni ‘40-44 vedono effettivamente un primo grande progetto di unione Europea, tanto è vero che è chiamato dai tedeschi “nuovo ordine europeo”. Un progetto in cui si crea una grande area che (siamo nel 1943) va dai Pirenei fino al Volga, tutto, ad eccezione della Svizzera, è occupato dall’esercito tedesco e, (non c’era ancora stata la disfatta di Stalingrado), i nazisti già progettano come riorganizzare quest’area, il genocidio degli ebrei fa parte di questa estrema pulizia razziale, poi si progetta la sterilizzazione degli slavi perché si dovrà decidere se e quanti dovranno essere utilizzati come schiavi alla produzione economica tedesca e poi i danesi, i belgi, gli olandesi, considerati più ariani che verrebbero messi ad un livello più alto della gerarchia e, via via, fino ai francesi, agli italiani, per arrivare ai serbi, polacchi, russi, che sono invece gli scarti.

Quindi c’è un progetto di Unione Europea, che però non ha niente a che vedere con quello che sarebbe arrivato dopo e che nascerà come risposta morale e politica ai disastri della seconda guerra mondiale.

A questo punto vediamo come esce l’Europa dalla guerra. Innanzitutto è inutile ricordare i disastri materiali, anche se dobbiamo tenere presente che una delle differenze radicali che distingue la prima dalla seconda guerra mondiale è che l’epicentro della prima è a Ovest, mentre l’epicentro della seconda è a Est; è il fronte occidentale che decide la vittoria e la sconfitta della Germania nel 1914: lì ha vinto, l’esercito russo si è arreso, Lenin firma la pace, ma poiché la guerra sul fronte occidentale non viene vinta, il risultato sarà la disfatta. Viceversa non dobbiamo dimenticare che l’epicentro della seconda guerra mondiale è a Est, quindi maggior numero di morti: non sappiamo quanti sono stati, si può ipotizzare una cifra di circa cinquantacinque milioni e oggi molti storici arrivano a ipotizzare che ventisette milioni di questi cinquantacinque erano cittadini sovietici (ucraini, estoni o lettoni) la maggioranza sono civili, caduti per la violenza e la brutalità con cui la guerra si è scatenata sul fronte orientale.

Questo però è un asso nella manica per l’Occidente, perché vuol dire che l’Occidente esce dalla guerra molto meno devastato di quanto a volte pensiamo. Sono le città tedesche che sono rase al suolo, è l’Est che è raso al suolo: Varsavia viene distrutta tre volte durante la guerra, una prima volta bombardata dai tedeschi nel 1939, il ghetto viene raso al suolo nel ‘43 e quando i polacchi tentano l’insurrezione nazionalista nel ‘44, c’è la distruzione totale. Lo stesso scenario di distruzione lo troviamo a Stalingrado dopo sei mesi di combattimenti, lo troviamo a Berlino, a Dresda e in altre città tedesche, ma Parigi esce intatta, così come Roma e Milano non finiscono in un totale cumulo di macerie.

I principali impianti industriali francesi e italiani non devono ricominciare da zero, quindi questa è una differenza importante rispetto all’Est Europa, comunque la differenza importante fra Est e Ovest riguarda l’esercito che materialmente ha operato la liberazione. I polacchi non vogliono questo termine, si rifiutano di usare la parola “liberazione” per l’arrivo dei sovietici a Varsavia, a Cracovia e in altre loro città perché una metà del loro Stato era già stato occupato nel ‘39, nel ‘45 hanno occupato anche l’altra metà. Voi capite che il punto di vista di quali sono i diversi modi di guardare la memoria del passato sta emergendo clamorosamente. La stessa cosa vale per i lituani, i lettoni e gli stessi ucraini vivono questa esperienza del rapporto con il passato, ma i polacchi la vivono in termini estremamente drammatici.

Così come lo vivono in termini molto diversi, rispetto agli italiani, i tedeschi; dobbiamo ricordare che, quando gli americani arrivano dalla Normandia, una delle prime città tedesche che investono è Acquisgrana, i combattimenti sono violenti, ma una volta che la forza armata tedesca si arrende, la popolazione – immediatamente – instaura ottimi rapporti con gli americani e guarda a loro come a degli ex-nemici.

In Germania Orientale la realtà è completamente diversa: in quel versante i tedeschi vivono una esperienza di fine guerra assolutamente traumatica, in primo luogo sul piano dei confini. Guardate dove è Berlino oggi, guardate su una cartina storica dove era Berlino nel 1939: lì c’è tutta la Prussia Orientale, metà circa della Polonia attuale che viene schiacciata verso occidente.

Una delle prime importanti dichiarazioni che fece il cancelliere Kohl, all’indomani dell’unificazione, fu di non avere nessuna rivendicazione al di là della linea Oder-Neisse, cosa accolta con sollievo da tutti, perché voleva dire accettare – nel bene e nel male – la lezione della storia e voleva dire tappare la bocca ai profughi ultranazionalisti (e spesso nazisti) che avrebbero voluto almeno risarcimenti economici, se non addirittura il ritorno ai confini del 1939.

Voi capite che queste sono questioni legatissime alla geopolitica dell’Europa, che affondano le loro radici in quelle che chiamiamo le rovine della guerra. Inoltre c’è da tener presente che l’arrivo dell’armata rossa comporta la violenza su almeno un milione di donne tedesche: tutte le donne berlinesi tra i dodici e i sessantacinque anni sono state violentate e queste sono cose che pesano nella memoria. Altra cosa importante è che nel 1990, a unificazione tedesca avvenuta, si decide a Berlino – dove fu firmata la pace – di costruire un grande Museo della Memoria. Per quanto riguarda la Shoà ormai c’è una ammissione autocritica, se poi andiamo a toccare il nervo scoperto della guerra sul fronte orientale, la situazione è tuttora estremamente variegata.

Questa la situazione presente un po’ dappertutto nel 1945 e i problemi sono di ordine economico e di ordine politico. Partiamo dal discorso politico: in Italia c’è stato il dato importante della Resistenza, anche se non dobbiamo esagerarne il ruolo, che ha avuto un’ampia partecipazione di massa. E’ la prima volta che contadini e operai, in tutte le zone, specialmente in Lombardia, Piemonte e, soprattutto, in Emilia, danno un contributo significativo di partecipazione e comunque in forma grandemente superiore rispetto a quanto accaduto durante la prima guerra mondiale, quando ad arruolarsi sono stati gli studenti, mentre i contadini hanno accettato la guerra così come si accetta la grandine; c’è comunque una assunzione di consapevolezza politica e questo vuol dire che la nuova Costituzione Repubblicana non può far finta di ignorare queste spinte e così abbiamo una delle costituzioni più democratiche di tutta Europa, nella cui elaborazione si è speso moltissimo Giuseppe Dossetti, la cui figura e il cui ruolo è ancora troppo poco conosciuto per quanto riguarda la stesura materiale del testo della Costituzione nella quale il concetto più importante è appunto quello che una costituzione vale e regge nel tempo se si trovano punti di mediazione condivisi da tutti. La grandezza di Dossetti fu quella di trovare il punto di incontro in cui si potevano confrontare laici, comunisti e cattolici, ciascuno con la propria peculiarità.

Per quello che riguarda la nascita graduale di aggregazioni a livello europeo, abbiamo innanzitutto un elemento importante da mettere a fuoco: l’Est e l’Ovest sono due realtà diverse e l’Est è sotto la dominazione comunista, la Germania a sua volta è divisa e a questo punto tutti si rendono conto che è indispensabile – se si vuole evitare un’ulteriore espansione dell’Unione Sovietica – integrare di nuovo la Germania, evitando di penalizzarla come si è fatto nel ‘18, trattandola da partner a pieno titolo e non da potenza umiliata e sconfitta.

Quindi in Europa, le prime forme di aggregazione a livello sovranazionale guardano all’Unione Europea come ad un traguardo ancora lontanissimo, per cui Altiero Spinelli e i federalisti non vengono ascoltati, il loro è un ruolo di profeti, ma non sono loro le vere anime del processo. Il processo è a livello molto più pragmatico e concreto: ci si rende conto che ci sono dei problemi pratici, di ordine politico, militare ed economico. Più che la vera integrazione europea, è importante il Piano Marshall, questa immensa mole di denaro e generi vari che arrivano dagli USA e che serve a creare un blocco continentale. Questo serve a cementare una grande area a controllo americano, all’interno della quale nasce l’idea di rafforzare ulteriormente questa strategia che coinvolge sempre più la Germania e che ha un effetto anticomunista di alto livello, perché più si sviluppa l’economia, meno disoccupati ci saranno e meno malcontenti sociali; si tagliano alla radice le gambe allo sviluppo di un movimento comunista interno. Al vertice le sinistre vengono espulse da tutti i governi – in Francia come in Italia – mentre, a livello sociale sia il Piano Marshall, ma ancor più questa politica economica finalizzata a integrare le risorse, hanno il compito di risollevare l’economia.

Tra i protagonisti di questi anni ne ricordo quattro, il primo dei quali è un protagonista che non c’entra, nel senso che rema controcorrente ed è – per certi versi – un illuso: è Charles De Gaulle. De Gaulle è un personaggio che non ha capito la necessità della strategia che ho provato a riassumere; egli si illude che la Francia sia ancora una grande potenza, che ce la faccia a fare da sola, che possa avere una forza nucleare autonoma. Si sente schiacciato tra USA e URSS, non vuole appiattissi – soprattutto sul piano militare – sul versante statunitense e cerca di recuperare il modello dello Stato-Nazione dell’inizio del ‘900; per certi versi è un modello ampiamente fallimentare, ma comunque De Gaulle avrà un ruolo decisivo, nel senso che quando vengono stipulati i primi Trattati della Comunità Economica Europea, c’è da parte dei firmatari l’idea che adesso stipuliamo degli accordi economici e poi – gradualmente – quella porzione di sovranità che adesso abbiamo ceduto in parte sulle questioni economiche, piano piano la cederemo anche in ambito politico e militare.

De Gaulle interrompe bruscamente questo orientamento e, per certi versi, gli si può attribuire un ruolo di freno allo sviluppo dell’integrazione europea.

A me preme invece fissare l’attenzione sugli altri tre personaggi, che per gli storici hanno un elemento in comune: per la Francia Schuman, per la Germania Adenauer, per l’Italia De Gasperi. Questi tre personaggi hanno in comune il fatto di essere uomini di frontiera: Schuman è francese, ma già il cognome ci dice che viene dall’Alsazia, dunque un mezzo tedesco, Adenauer è tedesco della zona del Reno, De Gasperi è un trentino. Sono uomini nati sulla frontiera, hanno capito come si possa e si debba vivere con due o più identità e quindi come l’Europa debba e possa convergere e il fatto che questi tre individui abbiano viva questa realtà di frontiera, ha avuto un ruolo decisivo nello svolgimento di quella politica che ha una serie di elementi convergenti, tenuto conto che non vogliono costruire la Federazione Europea, da questo punto di vista, Spinelli è un visionario che non viene ascoltato da nessuno.

Gli altri tre, anzi ognuno di loro, tende a risollevare la propria economia nazionale (a pezzi) con l’obiettivo di collegare a questa anche un risvolto anticomunista forte in tutti e tre e avendo simultaneamente la consapevolezza che l’integrazione della Germania con gli altri è vitale, per impedire una espansione ulteriore del comunismo. Il tutto con un ulteriore elemento politico, militare ed economico che è la potenza americana alle spalle, cosa di cui dobbiamo sempre tenere conto, perché l’Europa nasce in quanto gli americani vedono di buon’occhio questa scelta.

 

Un ultimo concetto importante: in tutti i Paesi europei, negli anni ‘50 e 60 del boom economico, si farà ampiamente tesoro dell’esperienza del New Deal e – se volete – persino dell’esperienza sociale nazista, cioè del fatto che lo Stato non può più far finta che i problemi e le esigenze della classe operaia e delle masse non lo riguardano. II Welfare State nasce assumendo come modello soprattutto Keynes e un po’ ovunque si cercherà di procedere in una direzione per la quale lo Stato cerca di venire incontro, con la sanità, con la scuola, le pensioni, a quelle che sono le esigenze della collettività. Sino a quando poi i debiti pubblici non diventeranno talmente elefantiaci da obbligare a una situazione difficile.

Un’ultima osservazione doverosa a titolo di appendice: Adenauer e De Gasperi sono cattolici e questo è importante dirlo e ribadirlo, proprio perché, a loro modo, sono cattolici atipici nello scenario del loro tempo, perché quando viene firmato il trattato di Roma nel 1957, il Concilio Vaticano II’ è ancora di là a da venire. Non dobbiamo dimenticare che il cattolicesimo degli anni ‘50 ai tempi di Pio XII’, non è lo stesso cattolicesimo dei giorni nostri; così come non dobbiamo dimenticare che negli anni ‘50 c’è il sogno cattolico di una Unione Europea, ma se mi permettete una battutaccia, questi pensano alla sindrome di Carlo Magno, pensano al Sacro Romano Impero, non a una libera associazione di democrazie, ma a una specie di restaurazione di una grande cristianità, in cui – tutto sommato – il Papa e la Dottrina Sociale cristiana abbiano il posto centrale.

Oggi noi restiamo giustamente inorriditi davanti all’integralismo islamico, credo però che molti cattolici abbiano la memoria corta, se non ricordano che sino al Vaticano II’ il cattolicesimo è integralista. Certo non ricorre alla violenza, non mette le bombe, ma per quello che riguarda concetti come la “laicità dello Stato”, l’accettazione dei principi elementari della democrazia per cui tutti possono parlare, i principi della libertà di coscienza, sono tutte cose che è il Vaticano II’, dieci anni più tardi, a dirle, con molti dei Padri Conciliari perplessi.

Non dobbiamo dimenticare che – qua e là – il modello continua ad essere la dittatura di Franco e non certo la democrazia, perché la democrazia puzza di americanismo e questo è guardato con sospetto e con perplessità. A livello cattolico italiano e francese, dobbiamo allora ricordare la originalità di pensatori che sono tutt’altro che rivoluzionari, ma sono quelli che aprono le porte del futuro.

De Gasperi con la sua esperienza trentina, che coniuga sinceramente il liberalismo con il cattolicesimo; Sturzo e Dossetti e, in Francia, la figura di Maritain, che sarà seguita soprattutto dalla sinistra democristiana e che – per l’epoca – aveva una impostazione molto ardita, in quanto lanciava un principio che, in parte, in maniera autonoma era stata ripresa da Dossetti ed è quella di cui parlavamo prima e cioè che non è più pensabile che uno Stato poggi su un’unica fede cattolica come nel Medio Evo: questo tempo è irrimediabilmente finito, dice Maritain, ne “L’uomo e lo Stato”, quello che conta oggi è una fede civile su cui cattolici, credenti e non credenti, possano trovarsi insieme, su cui possano trovare dei punti solidi intorno ai quali, in nome del bene comune, costruire lo Stato.

Sono gli stessi principi secondo i quali – per i parametri dell’epoca, l’estrema laicità – venne costruita la Costituzione della Repubblica Italiana che, ricordiamolo sempre, venne elaborata, votata e firmata da uomini come Dossetti e De Gasperi ma non presenta il nome di Dio e questo, per quell’epoca, è qualcosa di sconvolgente; tanto è vero che quando aprono le porte del Mercato Comune Europeo, lasciando lo spiraglio che in futuro possa evolvere in Unione Europea (anche a livello politico) non c’è la sindrome di Carlo Magno. Semplicemente si pensa, in alternativa al nuovo ordine nazista, ad una unione economica e politica di democrazie di popoli che partono da esperienze storiche molto diverse, trovano dei punti in comune e infine riescono a costruire qualcosa insieme.

Ho sempre trovato estremamente sterile la polemica sulle radici cristiane dell’Europa nella Costituente Europea, perché o è una affermazione puramente nominale e allora non vuole dire niente, oppure, se ha un significato vuol dire che allora non è cristiano chi non si riconosce in quelle radici e deve essere penalizzato. la qual cosa è demenziale e io ritengo sia molto più saggia una sana riscoperta delle lezioni di grandi maestri cattolici che non hanno avuto paura, nella loro fede integerrima, ad affrontare una laicità molto più ardita di tante strade proposte oggi.

 

Lascia un commento